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  • Writer's pictureFabrizio Pressi

Sull'Ayurveda prima ancora che sul Massaggio Ayurvedico


I Veda

Nel subcontinente indiano sono nati e si sono sviluppati molti sistemi terapeutici complessi; l'āyurveda è il più antico di cui si abbia notizia e l'unico che vanti un'imponente letteratura in lingua sanscrita.

Il nome di Veda attribuito alla medicina mostra come essa si riallacci idealmente ai quattro testi sacri che portano questo nome e che sono alla base della civiltà indiana: il Ṛgveda, il Sāmaveda, lo Yajurveda e l'Atharvaveda.

La Suśrutasaṃhitā (Raccolta di Suśruta) definisce l'āyurveda una sottosezione (upāṅga) dell'Atharvaveda; l'Aṣṭāṅgasaṃgraha (Compendio delle otto parti [della medicina]) lo chiama Veda secondario (upaveda) dell'Atharvaveda.

Effettivamente, non è difficile constatare che fra l'Atharvaveda e la medicina ci sono molti elementi comuni, in particolare il lessico anatomico, l'uso di alcune piante officinali, vari dati di fisiologia e patologia ma è soprattutto evidente che entrambi si presentano come saperi sacri, rivelati da divinità ed eternamente validi, anche se non creati dalle divinità stesse.

Il Veda religioso fornisce la chiave ritualistica, gnostica e devozionale per comprendere e modificare la realtà, il Veda medico insegna alcuni principî fondamentali con cui si possono riportare alla salute gli esseri viventi ammalati.

La Carakasaṃhitā (Raccolta di Caraka), il più antico testo āyurvedico oggi esistente, narra con un mito significativo la storia della rivelazione da cui ebbe origine la medicina. Un tempo gli asceti migliori, riunitisi alle pendici dell'Himalaya, constatarono che le malattie erano diventate sempre più un ostacolo a qualsiasi pratica purificatoria e alla longevità; inviarono quindi uno di loro, Bharadvāja, dal dio Indra, affinché si facesse concedere un mezzo per curare le malattie.

Indra rivelò a Bharadvāja l'āyurveda, che lui stesso aveva appreso dagli Aśvin, i quali a loro volta l'avevano ricevuto da Prajāpati, il padre delle creature, e questi dal creatore Brahmā. Quest'ultimo padroneggiava il sapere medico anche senza averlo appreso da un maestro, perché conoscendo i quattro Veda e avendo raggiunto il massimo grado della sapienza in ogni campo, la sua conoscenza dell'āyurveda era di per sé completa.

Per vedere come operi l'arte definitoria degli autori medici si può prendere a esempio lo stesso termine āyurveda; nell'accezione più comune esso è 'la conoscenza, il sapere sacro' (veda) relativo alla 'vita' o 'longevità' (āyus).

La parola āyus, che in questo composto si presenta nella forma āyur per motivi di eufonia, appartiene a una famiglia indoeuropea di nomi (gr. aiōn, lat. aeuus, aeternus, got. aiws) il cui significato è correlato, da una parte, al tempo e alla durata, dall'altra alla forza vitale. Considerando l'etimologia, quindi, āyus è sia la vita umana nella sua piena durata, che in questa era cosmica o kaliyuga è di circa cent'anni, sia la pienezza della vitalità e dell'energia.

Questo è il significato più antico e comune di āyus, l'accezione che esso aveva già nei testi vedici, dove gli dèi erano frequentemente invocati affinché accrescessero all'uomo il soffio (prāṇa), la prole, il bestiame, la fama e soprattutto l'āyus stesso (per es., Atharvaveda, XIX, 63, 1).

Nella Carakasaṃhitā questa definizione corrente di āyus è data per assodata e si preferisce enunciarne di meno scontate e più tecniche, come la seguente: l'āyus è "l'unione di corpo, organi, mente (sattva) e sé (ātman)" (Carakasaṃhitā, Sūtrasthāna, I, 42a).

Questa definizione, ripresa e illustrata in un passo successivo, ha tra le sue funzioni quella di sottolineare l'impostazione psicosomatica della medicina indiana; suo oggetto e campo di indagine non è soltanto il corpo, ma l'intero essere vivente, e quindi anche le funzioni dei sensi (vista, udito, odorato, gusto e tatto), la mente e il sé; inoltre essa rimanda, per esempio, ai passi dove si spiega come l'uso non corretto delle facoltà sensoriali e psicologiche sia un fattore scatenante di varie patologie.

Ovviamente, l'āyurveda non contiene una psicologia in senso moderno, tuttavia si occupa anche delle origini organiche delle malattie mentali.

L'āyurveda è anche definito come ciò che parla dell'"āyus giovevole e nocivo, felice e infelice, di ciò che giova o nuoce all'āyus, della durata dell'āyus e dell'āyus stesso" (ibidem, I, 41).

Tale definizione è degna di nota perché molto più ampia di quella che generalmente si applica alla medicina in un contesto moderno e occidentale; infatti è innanzi tutto evidente la volontà di includere nell'āyurveda, almeno idealmente, tutti i comportamenti salutari e non salutari che si possono adottare durante la vita, ossia non soltanto un regime moderato, ma anche una serie di azioni etiche che si ripercuotono positivamente sull'āyus di chi le compie. Per esempio, è 'giovevole' desiderare il bene degli esseri viventi, non provare alcuna cupidigia per le ricchezze degli altri, dire la verità, amare la pace (ibidem, XXX, 24).

D'altra parte, la vita 'felice' non è soltanto quella vissuta da chi realizza gli obiettivi che si propone, ma anche quella in cui regna uno stato di buona salute, perché, come dice un verso molto citato della Carakasaṃhitā, l'assenza di malattie è la 'radice', la causa principale, degli obiettivi primari che si possono perseguire nella vita umana, cioè l'osservanza delle leggi (dharma), il profitto e la carriera (artha), il piacere (kāma) e la liberazione (mokṣa) (ibidem, I, 15b).

L'āyurveda, quindi, determina ciò che giova o nuoce alla vita, pertanto non è solamente cura, ma anche azione preventiva che consiste nell'evitare i cibi e i comportamenti nocivi alla propria costituzione psicofisica; un ulteriore compito del medico è determinare la misura dell'āyus, cioè quanto resta da vivere al paziente, perciò i testi classici contengono ampi repertori di segni che permettono di valutare la robustezza di una persona e prevedere la durata residua della sua vita (per es., l'Indriyasthāna della Carakasaṃhitā).

Ayurveda e Yoga

Al fine di chiarire ulteriormente qual è l'oggetto specifico dell'āyurveda occorre spiegare in quale senso esso adotti una prospettiva psicosomatica e questo risulta più facile se lo si confronta con lo Yoga.

Infatti, la medicina rimanda ai testi di Yoga per la meditazione o la coltivazione di particolari stati mentali, come lo sviluppo della consapevolezza e l'estasi, anche se non si occupa esclusivamente del mondo fisico e della dimensione corporea, ma estende le sue prescrizioni pure alla sfera mentale.

Emblematico, in questo senso, è un famoso passo di Cakrapāṇidatta che commenta le prime parole della Carakasaṃhitā: "Sia lode al Signore dei serpenti, che distrugge i difetti della mente, della parola e del corpo per mezzo dell'opera di Patañjali, del Mahābhāṣya e dell'opera ricomposta da Caraka".

Qui il mitico Śeṣa, Signore dei serpenti e amico fidato di Viṣṇu, è ritenuto essere la fonte di tre provvidenziali incarnazioni: la prima è Patañjali, il maestro che sistematizzò le dottrine dello Yoga negli Yogasūtra (Aforismi sullo Yoga); la seconda, con lo stesso nome, è la figura di un celebre grammatico, autore del Mahābhāṣya (Grande commento), un commento all'opera di Pāṇini; infine, la terza è Caraka, che riorganizzò in un ponderoso volume gli insegnamenti medici del maestro Agniveśa.

Ciascuno di questi tre personaggi diede agli esseri umani uno strumento affinché si potesse rimediare alle imperfezioni mentali, verbali oppure fisiche: lo Yoga per eliminare i problemi della mente, la grammatica per correggere gli errori della parola e la medicina per curare le malattie del corpo.

Questa invocazione mostra quindi come gli stessi autori medici riconoscano una certa divisione di campo fra lo Yoga e l'āyurveda. Nei trattati medici classici non si menzionano né gli āsana o 'posizioni' dello Yoga, né i cakra, o ruote energetiche, né la fisiologia mistica dei soffi, prāṇa, e dei canali, nāḍī; anzi, la medicina indiana, presentandosi come uno śāstra indipendente, cerca di conseguire il proprio fine di salute psicofisica persino in contrasto con i dettami religiosi e ascetici, e così, nei casi in cui sia utile per la salute del paziente, prescrive il consumo di carne dell'animale più sacro agli Indiani, la vacca, e di altri animali (per es., Carakasaṃhitā, Cikitsāsthāna, VIII, 158); più raramente invita a far uso di alcolici; in generale, comunque, raccomanda il soddisfacimento dei bisogni fisici (fame, sete, sonno, desiderio sessuale, impulso a sbadigliare, piangere, ridere, urinare, defecare, ecc.), e questo ovviamente è in contrasto con un'intensa pratica ascetica, che controlla e disciplina gli impulsi fisici per non turbare il lavoro sulla mente.

Yoga e āyurveda hanno tuttavia in comune l'esercizio dell'individuazione degli ariṣṭa, i segni premonitori di morte; lo yogin li applica a sé stesso per sapere quanto tempo gli resta per praticare e prepararsi al trapasso, e il medico li riconosce nel paziente per capire quale efficacia possano avere le cure ed evitare l'accanimento terapeutico (Yogasūtra, II, 22; Carakasaṃhitā, Indriyasthāna).

Non solo Caraka

Posteriore a Caraka è Suśruta; argomento principale della sua opera la Suśrutasaṃhitā (Raccolta di Suśruta), è la chirurgia e, coerentemente con questa impostazione, fin dalle prime pagine, egli rivendica la superiorità della disciplina chirurgica rispetto alle altre branche della medicina.

Persino il mito di fondazione ne risulta influenzato in quanto a esporre l'āyurveda non è più Bharadvāja ma Divodāsa Dhanvantari, re di Benares e incarnazione del dio Dhanvantari. Il re, avvicinato da un gruppo di saggi che gli chiedono l'insegnamento per aiutare gli esseri umani ammalati, comincia dicendo che Brahmā compose l'āyurveda in centomila strofe, ma poi, accortosi che gli uomini avevano vita breve e intelletto limitato, rifuse la materia in otto parti (aṣṭāṅga): chirurgia (śalya), oftalmologia-otorinolaringoiatria (śālākya), medicina generale (kāyacikitsā), psichiatria (bhūtavidyā), pediatria (kaumārabhṛtya), tossicologia (agadatantra), geriatria (rasāyaṇatantra) e andrologia (vājīkaraṇatantra).

Dhanvantari chiede poi ai suoi studenti quale parte desiderino ascoltare, ed essi, primo fra tutti Suśruta, rispondono che sono interessati a un insegnamento basato sulla conoscenza della chirurgia. Soltanto dopo questo preambolo sono esposti lo scopo, la definizione e i mezzi di conoscenza dell'āyurveda, ribadendo ancora una volta l'importanza della prevenzione: "Scopo della medicina è la cessazione completa della malattia per coloro che ne sono afflitti e la protezione di colui che è sano" (Suśrutasaṃhitā, Sūtrasthāna I, 14).

Il terzo classico che forma la 'Grande Triade' è quello di Vāgbhaṭa, a cui sono attribuiti due trattati: l'Aṣṭāṅgasaṃgraha (Compendio delle otto parti [della medicina]), in prosa e in versi, molto esteso, e l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā (Raccolta del cuore delle otto parti [della medicina]), in versi ed estremamente sintetico, tanto da essere difficilmente comprensibile senza un commento.

A prima vista, il secondo potrebbe sembrare un riassunto del primo, volto a facilitarne la memorizzazione, ma nel secondo si trovano passi assenti nel primo. Questo ha fatto ipotizzare che l'Aṣṭāṅgasaṃgraha sia stato scritto dopo l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā e che sia un rifacimento ampliato e commentato di quest'ultima, tuttavia il consenso su questa ipotesi non è unanime.

A Vāgbhaṭa è attribuito anche il trattato alchemico Rasaratnasamuccaya (Summa dei gioielli delle essenze) e numerose altre opere mediche. Pochi sono i punti fermi a proposito dell'identità di Vāgbhaṭa, della sua datazione e dei testi a lui attribuiti. Innanzi tutto, sia l'Aṣṭāṅgasaṃgraha sia l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā citano Caraka e Suśruta, e quindi appartengono a un periodo posteriore rispetto a questi autori. In secondo luogo, l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā, con il commento di Candrānandana, è stata tradotta in tibetano da Rin-chen-bzang-po tra il 1013 e il 1055 e questa traduzione ha acquisito grande notorietà, tant'è vero che l'opera classica fondamentale della medicina tibetana, il Rgyud-bzhi (Quattro tantra [della medicina]), tradizionalmente attribuito a Vairocana, contiene almeno una strofa identica all'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā (Sūtrasthāna, XVI, 46); esiste, inoltre, una traduzione persiana di un'opera di Vāgbhaṭa, probabilmente l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā, redatta nel 1473 d.C.

Alcune notizie su Vāgbhaṭa sono fornite dallo stesso testo dell'Aṣṭāṅgasaṃgraha (Uttarasthāna, L, 203-204), dove è detto che il nonno dell'autore era un eccellente medico e si chiamava Vāgbhaṭa, mentre il padre era Siṃhagupta; l'autore nacque nel Sindh e fu istruito dal padre e da un guru di nome Avalokita. Sia il nome del guru, che sembra alludere al bodhisattva Avalokiteśvara, sia la strofa dedicatoria all'inizio dei due trattati hanno fatto sospettare che Vāgbhaṭa fosse buddhista; la strofa dedicatoria iniziale è rivolta infatti a un ekavaidya o 'unico medico', che "elimina rapidamente dal mondo tutte le malattie innate, a cominciare dal desiderio (rāgādiroga), insieme alla loro radice" (Aṣṭāṅgasaṃgraha, I, 1); l'Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā si rivolge invece a un apūrvavaidya, un 'medico senza precedessori', che potrebbe essere il Buddha, o una divinità hindu o altro, sul quale i commenti indigeni non danno chiarimenti.

Fra gli altri argomenti a sostegno dell'adesione al buddhismo da parte di Vāgbhaṭa c'è il fatto che egli menziona divinità buddhiste quali Āryāvalokiteśvara e Āryatārā (Aṣṭāṅgasaṃgraha, Sūtrasthāna, VIII, 59), oppure Bhaiṣajyaguru, il Buddha della medicina, del quale è citato anche il mantra, tuttora in uso presso le scuole del buddhismo tibetano (Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā, Sūtrasthāna, XVIII, 18; Aṣṭāṅgasaṃgraha, Sūtrasthāna, XXVII, 12).

Le opere di Vāgbhaṭa contengono tuttavia numerosi elementi tipicamente induisti e questo ben si spiega con il fatto che induiste sono le sue fonti, cioè Caraka e Suśruta.

Come opera un medico ayurvedico Prima di curare un paziente occorre valutarne la longevità e la forza, nonché l'intensità della malattia; una terapia drastica, infatti, può nuocere a un paziente debole, mentre una cura leggera non guarisce un paziente robusto gravemente ammalato. è quindi necessario determinare in modo accurato il tipo di costituzione (prakṛti) del paziente, la malattia (vikṛti) di cui soffre, lo stato degli elementi e degli organi corporei, la loro misura e quantità, l'equilibrio fra essi, lo stato psicologico, la capacità di mangiare e digerire il cibo, la capacità di esercizio fisico e l'età.

Fra questi elementi il più importante è la costituzione fisica; essa è determinata all'atto del concepimento dai doṣa predominanti a seconda delle condizioni del seme maschile e del sangue femminile, della stagione, delle condizioni dell'utero, dell'alimentazione e regime della madre e degli elementi macro-microcosmici nel corpo dell'embrione.

Gli individui in cui predomina il flegma (kapha) si chiamano śleṣmala e sono caratterizzati da membra untuose e lisce, aspetto piacevole e carnagione chiara; in loro sono abbondanti seme, desiderio sessuale e progenie; il loro corpo è compatto, le membra sode; agiscono e mangiano lentamente e le loro malattie hanno un decorso lento; non hanno mai molta fame e sete, caldo e sudore; sono pazienti molto calmi, forti e longevi, e facilmente diventano assai ricchi e sapienti.

Gli individui biliosi (pittala) non tollerano il caldo e di solito hanno macchie o lentiggini sulla pelle e diventano precocemente grinzosi, canuti o calvi; mangiano e bevono molto, sudano, urinano ed evacuano frequentemente ed emanano un odore forte; il seme, il desiderio sessuale e la progenie sono insufficienti; nel complesso hanno una forza e una longevità media e tale è anche la loro ricchezza e sapienza.

I pazienti di costituzione ventosa (vātala) sono magri, secchi e piccoli; parlano molto, sono instabili e si muovono continuamente; facili agli entusiasmi, si stancano in fretta e apprendono e dimenticano altrettanto rapidamente. Caratteristica è la loro intolleranza al freddo, vanno soggetti a raffreddori, reumatismi, rigidità delle articolazioni e a malattie dal decorso rapido. Capelli, unghie, denti, mani e piedi sono ruvidi, e le membra facilmente scricchiolano; la loro forza, longevità e ricchezza sono minime. Accanto a questi tre tipi fondamentali di costituzioni, ve ne sono altre in cui predominano due doṣa alla volta, oppure quella in cui i tre doṣa sono in equilibrio (Carakasaṃhitā, Vimānasthāna, VIII, 94-100).

Sul massaggio Ayurvedico

Il suo scopo principale è quello di ripristinare l’equilibrio dell’organismo e di mantene­re la salute fisica e mentale, è considerato un ottimo strumento per combattere lo stress ed un valido aiuto per la cura delle malattie, preserva le aree vitali del corpo (chiamate MARMA), man­tenendole in ottime condizioni ed ha effetti di potenziamento sulle difese naturali.

Queste sono le proprietà di questa antichissima arte di massaggio:

· attivazione della circolazione sanguigna e linfati­ca, con un più facile nutrimento di tutti i tessuti;

· azione benefica sulla colonna vertebrale;

· effetti tonici sui muscoli;

· conseguenze positive sullo stato psicologico della persona;

· riequilibrio dei livelli ormonali;

· miglioramento dell’interscambio dei fluidi corporei con una più semplice eliminazione delle tossine;

· azioni positive su insonnia, emicrania, stanchezza e digestione;

· efficace nelle slogature, contratture, distorsioni, tendiniti, stiramenti muscolari, edemi degli arti e crampi;

Ogni costituzione necessita di un massaggio specifico particolarmente se c’è una situazione di squilibrio.

Il massaggio per la persona con costituzione Vata è “pesante” e antidolorifico; il massaggio per la persona con costituzione Pita è “dolce”, calmante e rivitalizzante; il massaggio per la persona con costituzione Kapa è “dinamico”, dimagrante e drenante.

Nella medicina ayurvedica, l’olio di sesamo è senza dubbio il più utilizzato, tanto per la routine giornaliera che durante i massaggi.

Può essere applicato su tutto il corpo, anche sulla testa, e ingerito, come ad esempio nella pulizia quotidiana ayurvedica del cavo orale. La sua delicatezza lo rende adatto persino ai bambini e ai neonati.

Le sue proprietà?

Tonificante per la pelle

Questo tipo di olio è benvenuto da tutti i tipi di pelle ed è considerato un ottimo tonificante e rigenerante del tessuto cutaneo. È particolarmente indicato per la tipologia Vata data la sua azione riscaldante e emolliente: ottimo per alleviare le screpolature o la pelle secca, svolge un benefico effetto protettivo, indispensabile soprattutto in inverno.

Defaticante e decontratturante

L’olio di sesamo è raccomandato anche per dare sollievo ai dolori muscolari e articolari.

È impiegato con soddisfazione quale stimolante della circolazione sanguigna.

Antiforfora ed anticaduta

Un’altra proprietà, forse meno nota delle precedenti, riguarda l’uso di questo olio per la chioma: è infatti consigliato quale ottimo antiforfora e indicato per irrobustire i capelli prevenendone la caduta e l’incanutimento.


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